CARENZA DI VITAMINA D: ALIMENTAZIONE E GENETICA CI AIUTANO A COMPRENDERNE LE CAUSE

CARENZA DI VITAMINA D: ALIMENTAZIONE E GENETICA CI AIUTANO A COMPRENDERNE LE CAUSE

La situazione dei livelli di vitamina D nella popolazione è chiara e preoccupante: quasi il 90% della popolazione mondiale e l’80% della popolazione italiana presenta bassi livelli di vitamina D.

Una carenza di questa vitamina è un problema non da poco dato che questo piccolo micronutriente esercita una serie di funzioni molto importanti che interessano non solo il tessuto osseo e l’apparato scheletrico, ma l’intero organismo.

Una carenza di vitamina D è associata infatti a un aumentato rischio di osteoporosi, rachitismo, diabete, a maggiori rischi tumorali, metabolici, cardiovascolari, e di numerose patologie a carico del sistema immunitario.

Uno dei ruoli principali della vitamina D e probabilmente il più conosciuto è quello di regolazione, mobilitazione, assorbimento e deposito di calcio e fosforo; e lo fa agendo su almeno tre organi: il rene, l’intestino e le ossa. È per questo che è indispensabile non solo durante il processo di formazione ossea, ma anche nell’arco intero della vita per mantenere le ossa forti e sane e per prevenire fratture e malattie dovute a fragilità ossea. Una bassa quantità di vitamina D rende inoltre più vulnerabili i denti alla formazione di carie.

Questa vitamina funziona anche come pro-ormone: migliora la funzionalità dell’insulina, necessaria a metabolizzare gli zuccheri, favorisce la produzione di leptina, coinvolta nel metabolismo degli acidi grassi, attenuando lo stimolo della fame e aumenta negli uomini la sintesi di testosterone. In più bassi livelli di vitamina D sembrano essere associati a fenomeni depressivi in quanto stimola la produzione di serotonina, l’ormone del buon umore.

È stato evidenziato come essa moduli il sistema immune determinando un effetto inibitorio sulla proliferazione dei linfociti T e la produzione di citochine. Bassi livelli sono associati ad un aumentato rischio di sviluppare patologie allergiche, dermatiti atopiche, riniti ed asma.

È presente in 5 forme, anche se le due più importanti sono la D2, l’ergocalciferolo e la D3, il colecalciferolo. La prima è presente negli alimenti di origine vegetale e viene assunta attraverso l’alimentazione, in particolare con l’assunzione di frutta secca, funghi, fagioli e verdure a foglia verde (spinaci, bietola, cicoria, cavolo nero etc.); la seconda è sintetizzata dall’organismo a seguito dell’esposizione ai raggi solari, che ne è senza dubbio la principale fonte. La vitamina D si può trovare anche nei prodotti di origine animale se pur in piccole quantità ed in cibi che però non è così frequente trovare sulle nostre tavole, come l’olio di fegato di merluzzo e di molti pesci (come salmone, sgombro, anguilla, tonno), il fegato, le uova di pesce, i tuorli d’uovo e i latticini.  

C’è da dire che gli alimenti forniscono poche unità di vitamina D se paragonate alla quantità prodotta dalla pelle in risposta alla luce solare. 15 ml di olio di fegato di merluzzo contengono 1600 UI di vitamina D3, mentre un’esposizione al sole per 15 minuti, a mezzogiorno d’estate, ne determina la produzione di ben 10000 UI.

Essa viene sintetizzata a partire da un precursore del colesterolo (7-DHC) che si trova nella pelle. L’energia radiante del sole, soprattutto le radiazioni UVB, trasforma questo precursore in un composto intermedio instabile, la previtamina D3, la quale si converte nel fegato grazie all’enzima CYP2R1 in vitamina D3, o 25(OH)D. La 25(OH)D viene successivamente convertita nel rene in 1,25(OH)2D, un composto più stabile, che è la forma metabolicamente attiva.
La previtamina D viene assorbita nel duodeno e nel digiuno e distribuita in gran parte al tessuto adiposo dove viene immagazzinata e trasferita al fegato. Per essere trasportata nel sangue, essendo liposolubile, deve essere legata a delle proteine.

Trattandosi di una lipoproteina che si accumula nell’adipe non è necessario assumerla con regolarità; infatti viene rilasciata in piccole dosi quando il suo utilizzo diventa necessario, soprattutto nei mesi invernali quando le ore di sole sono poche. Per questo è importante esporsi al sole durate i mesi estivi. Sono sufficienti 10/15 minuti al giorno per chi ha un fototipo chiaro, un po’ di più per chi ce l’ha più scuro. Basta una bella passeggiata o praticare sport all’aria aperta ed esporre viso, mani e braccia.

Pur essendo il nostro paese ben irradiato dal sole, la carenza di vitamina D ha raggiunto percentuali alte. La quantità viene misurata attraverso il suo dosaggio nel sangue e si ha uno stato di:

carenza: < 10 ng/mL

insufficienza: 10 – 30 ng/mL

sufficienza: 30 – 100 ng/mL

tossicità: >100 ng/mL

Paradossalmente nei paesi del Nord Europa come Svezia e Norvegia, che hanno meno giorni di sole, la percentuale di persone con carenza è inferiore. Dato il minor irraggiamento solare vengono attuate vere e proprie politiche di integrazione che ne prevedono l’arricchimento obbligatorio in alcuni prodotti alimentari, in particolare nel latte e derivati.

Le persone maggiormente esposte al rischio di carenza sono oltre agli anziani e bambini, i soggetti affetti da malassorbimento e patologie intestinali o con ridotta funzionalità renale, o chi segue diete rigidamente vegane o fruttariane.

Si stima che la genetica influisca per il 70% alla concentrazione plasmatica di vitamina D e questo perché se alcuni enzimi che convertono i precursori o se le proteine trasportatrici presentano delle mutazioni nella loro sequenza del DNA non riescono a funzionare in modo perfetto e una parte del pathway metabolico risulta compromesso.

Ad esempio, una mutazione puntiforme (rs10741657) nel gene CYP2R1 fa sì che l’enzima che converte il precursore da previtamina D a vitamina D nel fegato funzioni molto meno e come conseguenza si ha che solo una quota viene convertita nella forma attiva e disponibile all’utilizzo. Chi presenta la variante sfavorevole G, soprattutto se in duplice copia, mostra una riduzione dell’attività enzimatica e un rischio maggiore di avere bassi livelli circolanti di 25(OH)D.

Solo una piccola frazione circola nel siero “libera”, mentre la maggior parte viene legata a proteine. Una di queste proteine, la DBP (Vitamin D-binding protein), è codificata dal gene GC. Fa parte della famiglia delle albumine ed è in grado di legare diverse forme di vitamina D, la D2, D3, 25(OH)D e anche la forma attiva. La maggior parte della vitamina D nel sangue è legata a questa proteina che è in grado di promuoverne il trasporto tra i vari compartimenti (pelle, fegato, rene, e tessuti bersaglio). Una delle molte varianti studiate è l’rs2282679: chi presenta l’allele G lega in misura minore la 25(OH)D e mostra livelli più bassi nel plasma.

Chi possiede delle varianti sfavorevoli presenta un rischio più alto di avere bassi livelli di vitamina D a causa di mutazioni in geni coinvolti nel suo metabolismo. Questi soggetti presentano quindi una riduzione della capacità di trasformare la vitamina D nella sua forma attiva o un deficit nel suo trasporto nei vari distretti dell’organismo, e devono quindi prestare maggiore attenzione alla sua assunzione.

In questi casi, sapendo a priori la propria predisposizione, è importante tenere monitorati i livelli di vitamina D nel sangue e cercare di garantirne un’assunzione elevata, soprattutto nei periodi invernali quando l’esposizione al sole è minima e quindi la quantità di vitamina D prodotta dall’organismo dipende quasi esclusivamente dalla dieta. È importante far uso di cibi che ne siano particolarmente ricchi o ricorrere se necessario alla supplementazione di colecalciferolo, sotto la supervisione del medico, così da poterne garantire adeguati livelli.



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